Segnalazioni. Novembre 2024

L’individuazione della residenza abituale del de cuius al momento della morte nella sentenza della Cour de cassation n. 21-10.905/2023.

L’individuazione della residenza abituale del de cuius al momento della morte nella sentenza della Cour de cassation n. 21-10.905/2023.

5 novembre 2024 | di Maria Cristina Gruppuso


La Première Chambre civile della Cour de cassation, con sentenza del 12 luglio 2023, si è pronunciata in tema di residenza abituale con riferimento ad una controversia in materia di successioni mortis causa.

La persona della cui successione si tratta, tra il maggio 2014 e il gennaio 2015, sottoscriveva un contratto di assicurazione sulla vita a favore di beneficiari determinati, tra i quali non comparivano le figlie nate da una precedente relazione. Come emerge dal testo della sentenza, a seguito di una grave malattia, a partire dal 2014, il de cuius intraprendeva diversi viaggi in Portogallo, dove il 28 giugno 2016, insieme alla moglie, trasferiva il proprio domicile e dove, oltre ad aver instaurato nuovi rapporti di amicizia e acquistato un’immobile, aveva deciso di iscriversi ad un corso di lingua per imparare il portoghese. Il 20 novembre 2016, l’ereditando decedeva in Portogallo a causa di un infarto.

Le figlie (rappresentate dalla madre) convenivano in giudizio la moglie del de cuius e i beneficiari del contratto di assicurazione, al fine di ottenere la divisione dei beni ereditari dinnanzi al giudice francese, sul presupposto che il de cuius, al momento della morte, avesse la residenza abituale in Francia.


Ai sensi dell’art. 4 del Regolamento UE n. 650/2012, rubricato «Competenza generale», infatti, «sono competenti a decidere sull’intera successione gli organi giurisdizionali dello Stato membro in cui il defunto aveva la residenza abituale al momento della morte».

I convenuti si costituivano in giudizio e sollevavano il difetto di giurisdizione del giudice francese, ritenendo, invece, che al momento della morte, il de cuius avesse la residenza abituale in Portogallo.

La Cour d’appel d’Aix-en-Provence, investita della causa, statuiva che avente giurisdizione sulla controversia concernente la successione del cittadino francese fossero i giudici francesi, in quanto, al momento della morte, il de cuius non aveva fissato «de manière stable et effective» la sua residenza abituale in Portogallo. Non solo, da quanto emerge nel testo, la Cour d’appel ravvisava nella fattispecie in esame una frode alla legge realizzata dal cittadino francese, poiché i primi soggiorni e il trasferimento del domicile del de cuius e della moglie in Portogallo, così come la scelta di liquidare il suo patrimonio immobiliare in Francia e di investire parte del ricavato nella polizza assicurativa (che tra i beneficiari, si ricorda, non annoverava la figlie legittimarie), costituivano atti realizzati in concomitanza con il sorgere della malattia e aventi uno specifico fine. Da tali elementi, infatti, la Cour d’appel ricavava che il de cuius aveva agito con il solo scopo di evitare l’applicazione delle disposizioni della legge francese in materia di diritti dei legittimari e di premi manifestamente eccessivi con riferimento al contratto di assicurazione vita, volendo, in sostanza, rendere applicabile alla successione la legge portoghese.

I convenuti propongono ricorso per cassazione, lamentando l’infondatezza dei presupposti su cui la Cour d’appel giunge ad affermare la frode alla legge e, quindi, a confermare la sussistenza della giurisdizione francese in violazione del considerando (26) (concernente la frode alla legge) e, soprattutto, dell’art. 4 del Regolamento UE n. 650/2012.

La Cour de cassation ritiene fondata la decisione della Cour d’appel e rigetta il ricorso. Nell’assai concisa motivazione, la cassazione muove dal testo del Regolamento UE n. 650/2012, richiamando il considerando (23).

Il Regolamento UE n. 650/2012, pur senza dettarne una definizione, al considerando (23), indica che il criterio di collegamento generale ai fini della determinazione della competenza e della legge applicabile è la residenza abituale del defunto al momento della morte, e fornisce alcuni criteri per determinarla. In particolare, l’autorità che si occupa della successione dovrebbe operare una valutazione globale delle circostanze di vita del defunto «negli anni precedenti la morte e al momento della morte» e una valutazione che tenga conto «di tutti gli elementi fattuali pertinenti». Con riferimento a detti elementi, il Regolamento, esemplificando, elenca: la durata del soggiorno, la regolarità del soggiorno, le condizioni del soggiorno e le ragioni del soggiorno.

Se si prosegue nella lettura del Regolamento, poi, il considerando (24), riferendosi a casi in cui può risultare complesso determinare la residenza abituale del defunto, ad esempio in ipotesi di trasferimenti per motivi di lavoro o in ipotesi in cui il defunto fosse «vissuto alternativamente in più Stati o si fosse trasferito da uno Stato all’altro senza essersi stabilito in modo permanente in alcuno di essi», consente di individuare la residenza abituale del de cuius  sulla base del centro degli interessi della sua famiglia o del centro degli interessi della sua vita sociale, nonché impiegando il criterio della cittadinanza o della localizzazione dei suoi beni principali.


Ora, la Cour de cassation conferma le argomentazioni della Cour d’appel, ponendo in evidenza alcuni elementi. Per un verso, dal punto di vista della durata del soggiorno (dunque, sotto un profilo quantitativo), il lasso temporale in cui il de cuius aveva vissuto in Portogallo era stato inferiore a cinque mesi (poiché si era trasferito il 28 giugno ed era morto il 20 novembre); per altro verso, il de cuius aveva deciso di imparare la lingua portoghese «très tardivement»; per altro verso ancora, persisteva un collegamento con l’ordinamento francese in quanto, pur avendo acquistato con la moglie un immobile in Portogallo, il de cuius restava titolare di una casa in Francia, continuava ad essere iscritto alle liste elettorali francesi e sia lui che la moglie mantenevano la maggior parte dei rapporti di amicizia e familiari in Francia, dove risiedevano altresì i beneficiari del contratto di assicurazioni.

Si potrebbe dedurre, in sostanza, che la Cour de cassation, volgendo l’attenzione al testo regolamentare, ma pur sempre nel segno di un accertamento della residenza abituale da operarsi «caso per caso», abbia impiegato in concomitanza taluni dei criteri forniti nei considerando del Regolamento UE n. 650/2012. I giudici, all’esito di tale valutazione, infatti, parrebbero aver attribuito rilevanza all’elemento temporale di cui al considerando (23), ritenendo non sufficiente al fine di stabilire la residenza abituale una permanenza in un determinato Stato pari solo a cinque mesi e, sempre sulla base di quanto emerge, non tenendo in conto la regolarità del soggiorno (se è vero che il de cuius e la moglie, dal 2014 si recavano in Portogallo). Ancora, oltre al criterio della durata del soggiorno, sembrerebbero concorrere nella valutazione della Corte anche gli ulteriori criteri dettati al considerando (24) per i casi complessi, in particolare: il centro degli interessi della famiglia del de cuius e delle sua vita sociale (avendo tenuto conto delle relazioni familiari e amicali, nonché del Stato di residenza dei beneficiari del contratto di assicurazione); l’elemento della cittadinanza (che si potrebbe desumere  dall’iscrizione alle liste elettorali francesi); l’elemento della localizzazione dei beni del de cuius (vista la titolarità di una casa situata in Francia).

La sentenza è disponibile in lingua francese: Cour de cassation n. 21-10.905/2023 

Segnalazioni. Settembre 2024

La tutela effettiva alla convivenza di fatto nella sentenza n. 148/2024 della Corte Costituzionale: possibili ripercussioni sul diritto dell’immigrazione?

Settembre 2024 | ESODI

La Corte Costituzionale, con la sentenza n. 148 del 2024 ha stabilito l’illegittimità costituzionale dell’art. 230-bis, III comma, c.c., nella parte in cui non contempla il “convivente di fatto” quale familiare dell’“impresa familiare”, e ha dichiarato la conseguente incostituzionalità dell’art. 230-ter c.c.

 

La questione di legittimità costituzionale riguardava la mancata equiparazione del convivente di fatto al coniuge ai fini dell’applicazione della normativa sull’impresa familiare. I fatti di causa riguardavano la convivente more uxorio del titolare di una azienda agricola familiare, la quale aveva prestato attività lavorativa continuativa presso l’azienda sino al decesso del convivente, e che aveva chiesto la liquidazione della quota dell’azienda ad essa spettante in qualità di “familiare” partecipante all’impresa. La domanda della convivente di fatto era stata rigettata nell’ambito dei giudizi di merito, sul presupposto del fatto che il convivente di fatto non potrebbe essere considerato “familiare” ai sensi dell’art. 230-bis, terzo comma, cod. civ., e che la convivenza si era svolta in un periodo antecedente alle modifiche apportate dalla legge 20 maggio 2016, n. 76 all’art. 230-ter cod. civ., con le quali il legislatore aveva inteso estendere parzialmente ai conviventi di fatto la disciplina dell’impresa familiare.

 

La Corte Costituzionale, sollecitata a valutare la legittimità costituzionale delle norme in commento dalle Sezioni Unite della Cassazione (ordinanza di interlocutoria no. 1900 del 18/01/2024), ha ritenuto che l’esclusione del convivente di fatto dal novero dei soggetti cui si può applicare l’art. 230-bis cod. civ. determinasse una violazione del diritto fondamentale al lavoro (artt. 4 e 35 Cost.) e alla giusta retribuzione (art. 36, primo comma, Cost.), in un contesto di formazione sociale, quale è la famiglia di fatto (art. 2 Cost.). Anche l’art. 3 Cost. risulterebbe violato “non per la sua portata eguagliatrice, restando comunque diversificata la condizione del coniuge da quella del convivente”, ma per la contraddittorietà logica della esclusione del convivente dalla previsione di una norma posta a tutela del diritto al lavoro che va riconosciuto quale strumento di realizzazione della dignità di ogni persona, sia come singolo che quale componente della comunità, a partire da quella familiare.

 

Sebbene la pronuncia della Corte Costituzionale abbia riguardato il tema della partecipazione del convivente di fatto all’impresa familiare, e dunque una materia distinta da quella del diritto dell’immigrazione, la decisione contiene numerosi spunti di interesse relativi alla ricostruzione operata dai giudici costituzionali dell’istituto della convivenza more uxorio, inteso quale “formazione sociale” ove si svolge la personalità dell’individuo, ai sensi dell’art. 2 Cost., e alla inclusione del convivente nel nucleo dei “familiari” (ai sensi dell’art. 230 bis cod. civ.). La decisione è, del resto, intervenuta poco dopo la pronuncia n. 10 del 2024, con la quale la Consulta ha riconosciuto che la convivenza rientrasse tra le relazioni affettive della

persona che l’ordinamento giuridico tutela “nelle formazioni sociali in cui esse si esprimono” e ha dichiarato l’illegittimità costituzionale della norma dell’ordinamento penitenziario nella parte in cui non prevede che la persona detenuta possa essere ammessa a svolgere i colloqui con il coniuge, la parte dell’unione civile o la persona con lei stabilmente convivente.

Inoltre, già nei primi anni Duemila la Corte Costituzionale riconosceva la sussistenza di “ipotesi particolari”, in relazione alle quali “si possono riscontrare tra convivenza more uxorio e rapporto coniugale caratteristiche tanto comuni da rendere necessaria una identità di disciplina” (sentenza n. 140 del 2009). Sebbene, infatti, la “trasformazione della coscienza e dei costumi sociali non autorizzi”, di per sé, la perdita dei contorni caratteristici delle due figure di famiglia di fatto e famiglia fondata sul matrimonio, al contempo, “la distinta considerazione costituzionale della convivenza e del rapporto coniugale non esclude la comparabilità delle discipline riguardanti aspetti particolari dell’una e dell’altro che possano presentare analogie ai fini del controllo di ragionevolezza a norma dell’art. 3 Cost.”.

Più in generale, la decisione si affianca al filone delle pronunce della Corte di Cassazione, volte a dare progressivo riconoscimento della rilevanza giuridica del rapporto di convivenza, intesa quale legame affettivo stabile e duraturo in virtù del quale siano spontaneamente e volontariamente assunti reciproci impegni di assistenza morale e materiale: negli ultimi anni sono intervenute decisioni sia in ambito civile (ad es. in tema di risarcimento del danno da perdita della vita del convivente, sull’accertamento della convivenza ai fini dell’indebito arricchimento, della legittimazione ad esperire l’azione di spoglio, o sulla detenzione qualificata dell’immobile adibito a casa familiare assegnato all’ex convivente genitore collocatario di figli minori) sia in ambito penale (in tema di inclusione, in via interpretativa, del convivente more uxorio tra i “prossimi congiunti” per cui è prevista l’applicazione della causa di non punibilità di cui all’art. 384 cod. pen.).

In sostanza, la Corte Costituzionale ha sancito, con la sentenza in commento, che vi è stata una significativa evoluzione della giurisprudenza costituzionale e di legittimità che, in convergenza con gli approdi della giurisprudenza sovranazionale in materia di diritto all’unità familiare, ha riconosciuto piena dignità alla famiglia composta da conviventi di fatto. Inoltre, ha affermato l’importante principio in base al quale, quando ci si muove nel campo dei diritti fondamentali (siano essi il diritto al lavoro, all’abitazione, alla protezione dei soggetti disabili, o all’affettività delle persone detenute) le differenze di disciplina con quanto previsto per la “famiglia fondata sul matrimonio” devono intendersi come recessive.

Di fronte a tali conclusioni, e al riconoscimento che la scelta di un differente modello familiare quale quello della convivenza (di fatto o registrata, ai sensi della legge 20 maggio 2016, n. 76) non possa restare priva di tutela, ci si chiede se sia ipotizzabile operare una estensione delle tutele a favore del familiare convivente anche nell’ambito del diritto dell’immigrazione. Attualmente, infatti, l’unica famiglia riconosciuta come tale dal legislatore nell’ambito del Testo Unico Immigrazione, e delle legge in materia di cittadinanza, è quella fondata sul matrimonio: ne deriva, ad esempio, che la cittadinanza italiana può essere richiesta unicamente dal coniuge di cittadino italiano; similmente, la tutela di fronte all’espulsione in ragione dell’irregolarità del soggiorno può essere invocata unicamente dal coniuge, convivente, di cittadino italiano; o, ancora, ai fini della computa dei redditi necessari per il rilascio del permesso di soggiorno rileva unicamente il reddito prodotto dal coniuge (italiano o straniero).

 

È noto che, nell’ambito del diritto dell’immigrazione, i diritti fondamentali dei migranti (compreso quello alla tutela dell’unità familiare) devono trovare un bilanciamento, “ragionevole e proporzionato” con l’interesse statale alla disciplina dei flussi migratori (ex multis, Corte Cost. sentenza n. 172 del 2012). Tuttavia, una simile esigenza non impedisce di prendere atto che l’evoluzione sociale rispetto alla rilevanza dei rapporti di convivenza riguarda anche le persone straniere, a maggior ragione quando legate da un rapporto affettivo con partner italiani. Le riflessioni contenute nella sentenza n. 148/2024 della Corte Costituzionale potrebbero rappresentare un punto di partenza per estendere la riflessione sulla rilevanza giuridica dei rapporti di convivenza – intesa come rapporto affettivo stabile e continuativo – delle famiglie miste e a composte da cittadini stranieri, alla luce della portata universalista dell’art. 2 Cost.


Corte Costituzionale, sentenza n. 148/2024, decisione del 4.7.2024, pubblicata il 25.7.2024, red. Amoroso

Segnalazioni. Luglio 2024

Recenti pronunce in tema di diritto al ricongiungimento familiare e di ritardi dell’Amministrazione nella fase di rilascio del visto

Recenti pronunce in tema di diritto al ricongiungimento familiare e di ritardi dell’Amministrazione nella fase di rilascio del visto

 

Luglio 2024 | ESODI

Segnaliamo alcune pronunce recenti, adottate da Tribunali di merito, in materia di ricongiungimento familiare e di diritto alla formalizzazione, da parte dei familiari che intendono ricongiungersi, della richiesta di rilascio di visto per motivi familiari.

Come noto, il ricongiungimento familiare si qualifica come un procedimento complesso e a formazione progressiva, poiché prevede il susseguirsi di due passaggi, l’uno funzionale all’altro: in una prima fase, il cittadino di Stato terzo presente in Italia, e titolare di un permesso di soggiorno della durata di almeno un anno, nonché di tutti i requisiti necessari per il ricongiungimento, presenta una richiesta di nulla osta alla Prefettura competente; durante la seconda fase, che si attiva al momento del rilascio del nulla osta, il familiare da ricongiungere deve recarsi presso la rappresentanza consolare italiana nel Paese di origine per richiedere il rilascio del visto.

Questa seconda fase rappresenta, spesso, quella di maggiore criticità nelle procedure di ricongiungimento, poiché non di rado le tempistiche delle Ambasciate per la fissazione degli appuntamenti sono particolarmente dilazionate nel tempo: può perciò verificarsi il superamento dei 6 mesi di validità del nulla osta, prima che il familiare possa ottenere un appuntamento per il rilascio del visto, nonostante i ripetuti tentativi di contattare l’autorità italiana. Di conseguenza, si è sviluppato un ampio contenzioso avanti l’autorità giudiziaria italiana volta alla risoluzione delle criticità legate alla presentazione della domanda di visto: di fatto, gli ostacoli amministrativi e burocratici possono in alcuni casi compromettere l’effettivo godimento del diritto al ricongiungimento familiare.

Le due pronunce illustrate di seguito, adottate dal Tribunale ordinario di Roma, intervengono entrambe sulla legittimità dell’operato dell’Amministrazione connotato da ritardi nella fissazione dell’appuntamento per il rilascio del visto, seppur nell’ambito di due procedimenti differenti.

Una prima pronuncia, adottata il 23.6.2024 (R.G. 23918/2024), ha carattere cautelare ad è stata emessa nell’ambito di un procedimento connotato da caratteri di urgenza ex art. 700 c.p.c. La causa riguardava la moglie e i tre figli minori di un cittadino pakistano vittima di gravi discriminazioni nel Paese e riconosciuto quale rifugiato in Italia. I ricorrenti si attivavano immediatamente dopo il rilascio del nulla osta per chiedere l’appuntamento per il rilascio del visto, che l’Ambasciata si rifiutava di concedere ritenendo necessaria la previa presentazione dei documenti di parte debitamente legalizzati. In proposito, il Tribunale fornisce un importante chiarimento circa la non consequenzialità tra la procedura di legalizzazione e quella di richiesta di visto, precisando che la circostanza che, per l’eventuale accoglimento della richiesta di visto, sarebbe stata necessaria la definizione della procedura di legalizzazione “è priva di pregio alla luce della normativa di settore che prevede il necessario impulso di parte anche per la procedura di visto e l’assenza di alcuna pregiudizialità di tale procedura rispetto a quella di legalizzazione”. Infatti, la prima procedura non è una parte necessaria del procedimento bifasico volto al riconoscimento del diritto al ricongiungimento familiare, “ma costituisce una mera eventualità di tale procedimento amministrativo (cfr., art. 6, comma 2, DPR n. 394/99), la quale ben può precedere perfino la richiesta di nulla osta e dunque l’inizio dell’intero procedimento”. Il Tribunale precisa che, conseguentemente, la richiesta di legalizzazione degli atti non sospende il termine di 6 mesi entro i quali deve necessariamente essere richiesto il visto procedura di ricongiungimento. Riconosciuto che i ricorrenti avevano tempestivamente richiesto la fissazione dell’appuntamento per il rilascio del visto – congiuntamente a quello di legalizzazione dei documenti – il Tribunale ha ordinato all’Amministrazione la fissazione dell’incombente.

Merita, inoltre, richiamare l’attenzione sulla valutazione operata dall’autorità giudiziaria in relazione alla sussistenza del periculum in mora, necessario per potersi esprimere nell’ambito del procedimento cautelare. A tal fine il Tribunale ha valorizzato l’interesse dei minori ad ottenere una decisione certa in merito all’esercizio del diritto all’unità familiare: “la lesione del benessere dei minori causata dall’incertezza sui tempi (oltre che sull’esito) del procedimento, infatti, si aggraverebbe inevitabilmente nelle more di un procedimento ordinario, data la perdurante situazione di lontananza dal padre, nel momento più delicato di formazione della personalità e data la necessità di garantire ad essi al più presto il raggiungimento di una stabilità, anche al fine di proseguire il proprio percorso di crescita, scolastica e di relazioni, nel Paese dove il ricorrente ha radicato la propria vita e intende rimanere, in caso di esito positivo della domanda”.

La seconda pronuncia che viene in rilievo, del 16.7.2024 (R.G. 20990/2024) è quella adottata nell’ambito di un giudizio di merito, proposto avverso il provvedimento di rigetto del visto per ricongiungimento familiare, motivato dall’asserito ritardo della domanda di rilascio dello stesso.

I fatti di causa sono i seguenti: una cittadina srilankese presentava istanza di ricongiungimento familiare con i genitori e, dopo aver ottenuto il nulla osta in data 7.3.2023, si attivava per ottenere un appuntamento nel loro interesse presso l’Ambasciata italiana a Colombo, per il tramite dell’agenzia Forsiter Global service. Stante l’impossibilità di ottenere un appuntamento tramite prenotazione sul sito dell’agenzia esterna (per l’assenza di slot disponibili), i richiedenti il visto contattavano l’Ambasciata il 4.9.2023, tramite gli indirizzi email ufficiali disponibili sul sito istituzionale. I funzionari replicavano che l’unica modalità per prendere appuntamento era tramite il sito di Forsiter Global service. I genitori della richiedente il ricongiungimento riuscivano a prenotare un appuntamento online, dopo diversi tentativi, soltanto nel marzo 2024 e l’Ambasciava adottata un decreto di rigetto dell’istanza per superamento del termine di 6 mesi dal rilascio del nulla osta.

 

Il Tribunale riconosceva tuttavia che i richiedenti il visto si erano prontamente attivati, subito dopo il rilascio del nulla osta, al fine di ottenere l’appuntamento presso l’agenzia esterna. In ogni caso, valutava che la richiesta di appuntamento trasmessa via email ai canali ufficiali dell’Ambasciata fosse sufficiente ad attivare l’iter per l’ottenimento del visto entro i termini di legge. L’autorità giudiziaria, inoltre, afferma che “alcun comportamento negligente è imputabile a parte ricorrente e che l’Ambasciata, scegliendo di delegare parte delle attività inerenti all’iter di rilascio del visto ad un’agenzia esterna rimane in ogni caso responsabile degli eventuali ritardi dalla stessa accumulati”.

 

In sostanza, nelle due pronunce esaminate, viene enunciato e rafforzato l’importante principio di diritto in base al quale i ritardi dell’autorità competente al rilascio del visto, anche qualora questa si avvalga di agenzie esterne per lo svolgimento delle attività delegatele, non possono in nessun caso ricadere sulla ricorrente e compromettere il suo diritto all’unità familiare.


Tribunale ordinario di Roma, sez. diritti della persona e immigrazione civile, 23 giugno 2024, n. R.G. 23918/2024

 

Tribunale ordinario di Roma, sez. diritti della persona e immigrazione civile, 16 luglio 2024, n. R.G. 20990/2024

Segnalazioni. Maggio 2024

Sulla recente pronuncia della Corte europea dei diritti dell’uomo in tema di successioni internazionali e tutela dei legittimari


Sulla recente pronuncia della Corte europea dei diritti dell’uomo in tema di successioni internazionali e tutela dei legittimari

10 maggio 2024 | di Maria Cristina Gruppuso

La Corte Europea dei diritti dell’uomo con sentenza del 15 febbraio 2024 si è pronunciata sull’affaire Jarre c. France, controversia in tema di successioni internazionali.

Maurice Jarre, compositore di nazionalità francese, padre di tre figli residenti in Francia (due nati da diversi matrimoni e uno adottato in seguito al terzo matrimonio), nel 1984, si trasferisce negli Stati Uniti, precisamente in California, dove contrae il quarto matrimonio. 

Negli anni seguenti, Jarre pianifica la sua successione, compiendo diverse operazioni: istituisce un trust di cui la moglie, per mezzo di una modifica successiva, diviene unica beneficiaria; costituisce (divenendo titolare del 90% delle quote) una société civile immobilière nella quale conferisce un bene immobile di sua proprietà situato a Parigi; redige due testamenti attribuendo i suoi beni alla moglie.

Nel 2009 Jarre muore in California. Secondo le norme di diritto internazionale privato francesi allora vigenti (si intende, prima dell’entrata in vigore del Regolamento UE n. 650/2012), le successioni internazionali seguivano il sistema scissionistico: la successione nei beni mobili era disciplinata dalla legge dello Stato dell’ultimo domicilio del de cuius, la successione nei beni immobili, invece, veniva regolata dalla legge dello Stato in cui gli immobili erano situati. La successione, pertanto, viene regolata dalla legge californiana, la quale non prevede una disciplina a tutela dei legittimari.

Nel 2010, i figli di Maurice Jarre agiscono dinnanzi al giudice francese per vedersi riconoscere il diritto di prelievo compensativo corrispondente alla loro quota di riserva sui beni situati in Francia, diritto che l’art. 2 della Legge del 14 luglio 1819 attribuiva ai soli eredi cittadini francesi.

In particolare, i figli ritengono che l’operazione del padre consistente nel conferimento in società del bene immobile situato a Parigi debba considerarsi nulla in quanto volta, con intento fraudolento, a eludere l’applicazione della legge francese. Non solo, secondo i ricorrenti, l’applicazione della legge californiana dovrebbe essere rifiutata poiché, non riconoscendo essa una quota riservata ai legittimari, è contraria all’ordine pubblico internazionale.

Nel 2011, nel corso del processo, interviene una pronuncia del Conseil constitutionnel che dichiara incostituzionale il citato art. 2 in quanto recante una disparità di trattamento tra gli eredi francesi e gli eredi stranieri. La disposizione viene abrogata con effetto retroattivo, avendo deciso il Conseil constitutionnel francese di non avvalersi del potere (pur attribuitogli dall’art 62, comma 2, della costituzione francese) di modulare gli effetti della pronuncia al fine di differire a data ulteriore il prodursi dell’effetto abrogativo. 

Nei giudizi di merito e in Cour de cassation, le doglianze dei figli di Maurice Jarre vengono respinte. Esauriti i rimedi giudiziari interni, i figli si rivolgono alla Corte europea dei diritti dell’uomo lamentando la violazione dell’art. 1 del Protocollo n°1 alla CEDU sulla protezione della proprietà e la violazione dell’art. 6 § 1 della CEDU concernente il diritto a un equo processo. 

Per ciò che concerne l’art. 1 del Protocollo n°1, i ricorrenti ritengono di essere titolari, sin dal momento dell’apertura della successione, di diritti sulla successione del padre, potendo vantare una posizione di titolarità (garantita dall’art. 1 Protocollo n°1) rispetto ai beni facenti parte della massa ereditaria e, in ogni caso, di essere titolari di un’aspettativa legittima (espérance légitime) di ottenere tali beni, anche in virtù della vigenza, al momento dell’apertura successione e alla data di introduzione del giudizio interno, dell’art. 2  della Legge del 14 luglio 1819 relativo al diritto di prelievo compensativo.

Secondo i ricorrenti vi sarebbe, poi, violazione dell’art. 6 § 1 della CEDU, poiché non è stato riconosciuto loro il diritto di prelievo compensativo vigente alla data in cui hanno introdotto il giudizio dinnanzi al giudice francese e in quanto l’abrogazione di tale diritto, avvenuta retroattivamente e in corso di causa, non avrebbe dovuto mettere in discussione la sua fondatezza (anche in considerazione del fatto che il diritto di prelievo è stato reintrodotto nel 2021, seppur depurato dalla previgente forma di discriminazione).

Con riferimento al primo motivo di ricorso, la Corte dichiara che la circostanza per cui al momento dell’apertura della successione e della proposizione dell’azione in giudizio vi erano le condizioni per ottenere il diritto di prelievo compensativo, attribuiva ai figli di Jarre, non un diritto attuale, ma un’aspettativa legittima di ottenere diritti sulla successione del padre. In tale contesto, l’intervenuta abrogazione dell’art. 2 ha costituito sì un’ingerenza nella situazione giuridica che i figli di Jarre potevano vantare, ma un’ingerenza avvenuta nel rispetto dei principi di legalità, proporzionalità e nell’interesse generale.

Con riferimento al secondo motivo di ricorso, la Corte rileva che alla luce del quadro legislativo in vigore al momento dell’introduzione del giudizio, vero è che ricorrenti potevano ottenere il riconoscimento del diritto ad una parte dei beni della successione del padre, e tuttavia la loro situazione giuridica non era ancora stata definita e i diritti per i quali agivano in giudizio non erano ancora stati definitivamente acquisiti. A ciò si aggiunga, prosegue la Corte, che l’abrogazione dell’art. 2 della Legge del 14 luglio 1819 è intervenuta a seguito di un normale meccanismo di controllo all’interno di uno Stato democratico.

Per tali ragioni, entrambi i motivi di ricorso vengono respinti.

Merita segnalare che, nel porre al vaglio le decisioni assunte dai giudici interni, la Corte giunge a pronunciarsi sul rapporto tra tutela dei legittimari e ordine pubblico, confermando quanto già statuito dai giudici interni. Come si diceva, i figli di Maurice Jarre lamentano la contrarietà all’ordine pubblico internazionale della legge californiana che non prevede una tutela a favore dei legittimari.

La Corte afferma chiaramente che non esiste un diritto generale e incondizionato (droit général et inconditionnel) dei figli di ereditare una parte dei beni dei loro genitori. Inoltre, aggiunge la Corte, nel caso di specie, i giudici francesi, prima di escludere l’operatività dell’eccezione dell’ordine pubblico internazionale, hanno verificato che i figli non si trovassero in uno stato di difficoltà economica o di bisogno e che non vi fosse nessun intento fraudolento nelle operazioni effettuate da Jarre volte a beneficiare la moglie, giungendo così ad una soluzione rispettosa della libertà testamentaria del de cuius.

La sentenza è disponibile in lingua francese: Affaire Jarre c. France