Segnalazioni. Marzo 2025
Sulla distinzione del regime successorio tra coniuge e convivente prevista dal Codice civile brasiliano.
Sulla distinzione del regime successorio tra coniuge e convivente prevista dal Codice civile brasiliano.
Sulla distinzione del regime successorio tra coniuge e convivente prevista dal Codice civile brasiliano.
17 marzo 2025 | di Alice Pereira
Nel 2017, la Corte costituzionale brasiliana ha dichiarato l’incostituzionalità della distinzione del regime successorio tra il coniuge e il convivente prevista dall’art. 1790 del Codice civile (“c.c.br.”). Si tratta della decisione Recurso Extraordinário n. 878.694/MG, e prima di descrivere i suoi principali fondamenti giova definire il profilo del convivente in base al diritto brasiliano, per agevolare la comprensione del provvedimento della Corte costituzionale.
In Brasile, le coppie possono formalizzare la loro relazione mediante il matrimonio civile o l’unione stabile, ove si riscontra la figura del convivente. L’unione stabile – riconosciuta come entità familiare, alla luce dell’art. art. 226, § 3º, della Costituzione brasiliana – risulta dal consolidamento di un legame affettivo e di convivenza, caratterizzato da elementi quali la pubblicità del rapporto, la sua continuità e durata, nonché il proposito di costituire una famiglia, come stabilisce l’art. 1723 c.c.br..
In molti aspetti l’unione stabile è diversa dal matrimonio, sopprattutto se si tiene conto della natura fattuale del primo e della natura solenne del secondo. Specificamente nell’ambito successorio, la Corte costituzionale ha cercato di definire se, in base alla Costituzione brasiliana, è possibile operare una distinzione tra la famiglia fondata sul matrimonio e quella derivante dall’unione stabile. Questa indagine è l’oggetto principale del Recurso Extraordinário n. 878.694/MG.
La controversia sottoposta all’esame della Corte riguardava il seguente caso: un uomo aveva convissuto sotto il regime dell’unione stabile con una donna per nove anni, in comunione parziale dei beni, fino al proprio decesso. Il defunto non aveva né discendenti né ascendenti, ma lasciava tre fratelli. Di conseguenza, ai sensi dell’art. 1790 c.c.br., applicabile ai conviventi: “La convivente o il convivente parteciperà alla successione dell’altro, relativamente ai beni acquisiti a titolo oneroso durante la vigenza dell’unione stabile, alle seguenti condizioni: [...] III - se concorre con altri parenti successibili, avrà diritto a un terzo dell’eredità”.
Pertanto, la quota spettante alla convivente sarebbe limitata a un terzo dei beni acquisiti a titolo oneroso durante l’unione stabile. Questa disposizione contrasta con la disciplina dell’art. 1829 c.c.br., applicabile al coniuge, secondo cui il coniuge erede gode di preferenza rispetto ai collaterali, di modo che, se esistono solo coniuge e collaterali, il primo eredita tutta la legittima. In questo modo, nel caso analizzato dalla Corte costituzionale, qualora la convivente superstite fosse stata, invece, coniuge del defunto, avrebbe avuto diritto a ereditare la totalità del suo patrimonio.
Nella sua pronuncia, la Corte costituzionale ha stabilito che ai coniugi e ai conviventi debba essere garantita una tutela successoria equivalente, alla luce dei principi costituzionali. Tale equiparazione trova fondamento nella finalità stessa della successione, ossia assicurare al superstite i mezzi necessari per condurre una vita dignitosa, il che non dipende dall’organizzazione o dalla composizione della famiglia. Infatti, il diritto successorio brasiliano si basa sul principio della continuità patrimoniale, considerato un elemento essenziale per la coesione e la perpetuazione del nucleo familiare. In questo senso, la Corte costituzionale segnala che il c.c.br. non ha concretizzato la suddetta nozione, poiché stabilisce trattamenti successori distinti tra coniugi e conviventi.
Dopo aver messo in evidenza alcune differenze tra gli artt. 1790 e 1829 c.c.br., tra le quali spicca quella già riferita, la Corte costituzionale conclude che la protezione successoria riconosciuta al convivente appare insufficiente e nettamente inferiore rispetto a quella garantita al coniuge. Come emerge dalla decisione in esame, tale disuguaglianza risulta irragionevole e priva di fondamento e di riscontro nella Costituzione brasiliana.
La Corte, tuttavia, riconosce che non si potrebbe equiparare integralmente l’unione stabile al matrimonio. Infatti, l’art. 226 della Costituzione brasiliana stabilisce che “la famiglia, base della società civile, riceve speciale protezione da parte dello Stato” e, al § 3º, dispone che “ai fini della protezione statale, è riconosciuta l’unione stabile tra uomo e donna come entità familiare, e la legge deve facilitarne la conversione in matrimonio”.
Alla luce di tale disposizione costituzionale, il matrimonio e l’unione stabile rappresentano istituti familiari distinti. Diversamente, non avrebbe senso disciplinarli in articoli separati, né prevedere che la legge favorisca la conversione dell’unione stabile in matrimonio. Inoltre, la Corte costituzionale riconosce l’esistenza di numerose differenze tra i due, che si manifestano, tra l’altro, nella modalità di costituzione e di comprovazione.
La questione da affrontare, ora, è se l’art. 226 della Costituzione brasiliana implichi una gerarchia tra le diverse istituzioni familiari, tale da giustificare una disciplina successoria differenziata. In tale indagine, la Corte costituzionale ha applicato i quattro tradizionali criteri di interpretazione giuridica: letterale, teleologico, storico e sistematico.
Dall’interpretazione letterale, si evince che l’art. 226 della Costituzione brasiliana stabilisce che la famiglia merita speciale protezione statale, senza tuttavia indicarne un modello specifico. Oltre a ciò, dato che il testo costituzionale non stabilisce una gerarchia tra le diverse forme di famiglia, il legislatore del codice civile non avrebbe potuto introdurla.
Mediante l’interpretazione teleologica, la Corte segnala che lo scopo dell’art. 226 della Costituzione brasiliana è la protezione della famiglia come strumento per garantire la tutela dei suoi membri. Si sottolinea, poi, che una delle finalità dello Stato è assicurare a tutti una vita dignitosa e, poiché la famiglia svolge un ruolo fondamentale a tal fine, è naturale che il dovere di protezione statale non si limiti alle famiglie fondate sul matrimonio, ma si estenda a tutte le entità familiari, in quanto tutte sono in grado di contribuire allo sviluppo dei propri membri. In questo modo, la Costituzione brasiliana impedisce trattamenti discriminatori basati sul tipo di famiglia scelto dagli individui.
Attraverso l’interpretazione storica, la Corte evidenzia che l’art. 226 della Costituzione brasiliana è stato concepito con un approccio inclusivo, estendendo la protezione statale a tutte le diverse forme di organizzazione e composizione familiare, che in passato non godevano di tale tutela. Pertanto, la creazione di una gerarchia tra il matrimonio e l’unione stabile risulta in contrasto con l’intenzione originaria dei costituenti, che miravano a garantire pari tutela a tutte le configurazioni familiari.
Con l’interpretazione sistematica, si sostiene che, sebbene matrimonio e unione stabile siano riconosciuti dalla Costituzione brasiliana come entità familiari distinte, il trattamento differenziato non debba tradursi in una gerarchizzazione tra le due, con conseguente disparità nel grado di protezione a esse attribuito. Un’analisi sistematica della Costituzione evidenzia che alla famiglia è riconosciuto un carattere strumentale, finalizzato al benessere e alla dignità dei suoi membri; pertanto, qualsiasi forma di distinzione che implichi una svalutazione di una specifica configurazione familiare risulterebbe arbitraria.
Nondimeno, la Corte ha dichiarato l’incostituzionalità dell’art. 1790 c.c.br., giacché stabilisce tutele successorie differenti per il matrimonio e l’unione stabile e viola il principio della dignità della persona. Come già evidenziato, non è possibile sostenere una preferenza costituzionale per il matrimonio al fine di giustificare il mantenimento della norma (art. 1790 c.c.br.) che offre una protezione inferiore all’unione stabile a livello successorio. Alla luce della Costituzione brasiliana, non esiste una gerarchia tra le diverse forme di famiglie; pertanto, non è ammissibile differenziare il livello di protezione statale riconosciuto a ciascuna.
Secondo la Corte, siccome non esiste alcun fondamento legittimo per il legislatore infracostituzionale nello stabilire regimi successori distinti tra coniugi e conviventi, si giunge alla conclusione che la lacuna derivante dalla dichiarazione di incostituzionalità dell’art. 1790 c.c.br. debba essere colmata attraverso l’applicazione della disciplina prevista dall’art. 1829 del medesimo codice. Pertanto, sia la successione dei coniugi che quella dei conviventi dovranno, a partire dalla decisione di questa Corte costituzionale, seguire il regime attualmente delineato nell’art. 1829 c.c.br.
In conclusione, la Corte ha formulato: “Nel vigente sistema costituzionale, è incostituzionale la distinzione dei regimi successori tra coniugi e conviventi prevista dall’art. 1790 del Codice Civile brasiliano, dovendosi applicare, in entrambi i casi, il regime stabilito dall’art. 1829 del Codice Civile”.
La sentenza è disponibile in lingua originale: Recurso Extraordinário n. 878.694/MG
Competenza sussidiaria e Regolamento UE n. 650/2012.
Competenza sussidiaria e Regolamento UE n. 650/2012
11 febbraio 2025 | di Elena Napolitano
La Corte di Giustizia dell'Unione Europea, nella sentenza del 7 novembre 2024, relativa alla causa C‑291/23 (L.S. c. P.L.), ha fornito chiarimenti sull'applicazione dell'articolo 10, par. 1, del Regolamento (UE) n. 650/2012 in materia di successioni. In particolare, la Corte ha stabilito che, in assenza di una residenza abituale del defunto in uno Stato membro e in mancanza di una scelta di legge applicabile, la competenza sussidiaria può essere esercitata dai giudici dello Stato membro in cui si trovano i beni ereditari, purché il defunto avesse un legame significativo con tale Stato.
Secondo i documenti della causa C‑291/23 (L.S. c. P.L.), il caso riguardava una controversia successoria transfrontaliera sorta tra fratelli a seguito del decesso del di loro papà, per lesione della riserva di legittima.
La questione atteneva alla successione di un professionista che, alla data della sua morte, possedeva doppia cittadinanza, egiziana e tedesca. Il de cuius, infatti, era nato in Egitto, ma aveva vissuto e lavorato per molti anni in Germania, luogo in cui aveva stabilito anche la residenza della famiglia che negli anni aveva formato.
A seguito della cessazione della sua attività, il professionista si era ritrasferito nel Paese natìo, ma continuava ad intrattenere rapporti con un istituto di credito in Germania, là dove veniva accreditato l’importo della pensione erogato dal regime pensionistico dell’ordine dei medici tedesco.
Sebbene il defunto avesse due figli, L.S. e P.L., le sue ultime disposizioni testamentarie vedevano quest’ultimo quale unico erede.
Il figlio estromesso dall’eredità (L.S.) agiva, così, in giudizio davanti al Landgericht Düsseldorf, giudice del rinvio, per ottenere dal fratello delle informazioni, nonché la reintegra della quota di riserva. Ad avviso del ricorrente, l’opportunità di adire il Tribunale del Land trovava la propria ratio nella circostanza che, alla data dell’apertura della successione, il defunto disponeva di beni ereditari in Germania.
Il focus della sentenza è il problema del ricorso alla competenza sussidiaria stabilita dall'articolo 10, par. 1 del Regolamento europeo sulle successioni, il quale si applica quando non è individuabile un tribunale competente sulla base della residenza abituale o della scelta della legge applicabile.
L’erede testamentario, costituitosi in giudizio, eccepiva l’incompetenza del giudice adito a decidere sull’intera successione, invocando il principio generale del medesimo Regolamento, secondo il quale la competenza a decidere è attribuita a titolo principale agli organi giurisdizionali dello Stato membro in cui il defunto aveva la residenza abituale al momento della morte, e quindi in Egitto.
Il giudice del primo grado, ritenendo la propria competenza a decidere sull’intera successione in base all’art. 10, par.1, rappresenta che la dottrina tedesca è divisa sulla questione inerente a quale sia il momento da considerare, al fine di valutare la condizione della presenza di beni ereditari nello Stato membro del giudice adito. Per taluni, sarebbe determinante il momento della morte, per altri quello della proposizione della domanda giurisdizionale. Nel caso in esame, il conto corrente bancario del de cuius al momento della morte presentava un saldo positivo, mentre alla data della proposizione del ricorso principale, lo stesso era già stato liquidato.
La questione pregiudiziale è stata deferita alla Corte di Giustizia per stabilire l'applicabilità del criterio di «collegamento significativo» tra il defunto e lo Stato membro in cui si trovavano i beni.
La decisione della Corte si articola su tre livelli.
In primo luogo, viene in rilievo il dato letterale della norma là dove l’articolo 10, par. 1, pone in rilievo come la regola di competenza generale dell’art. 4 non è applicabile se l’ultima residenza abituale del defunto era in uno Stato in cui il Regolamento non opera. In questo caso, infatti, i giudici di uno o più Stati membri possono comunque essere competenti, a titolo sussidiario. In base all’articolo 10, par. 1, lett. a, i giudici dello Stato membro in cui si trovano i beni ereditari sono competenti a decidere sull'intera successione se il defunto possedeva, al momento della morte, la cittadinanza di quello Stato. La cittadinanza dello Stato del foro non è dunque un criterio di per sé sufficiente per attribuire competenza, bensì è necessaria la presenza sullo stesso territorio di alcuni dei beni ereditari. In mancanza della competenza territoriale di qualche altro Stato membro, competente a decidere dell'intera successione sarà il giudice dello Stato nel quale il defunto aveva la precedente residenza abituale. Tuttavia, affinché tale condizione sia soddisfatta, è necessario che la domanda giudiziaria sia proposta entro un termine non superiore a cinque anni dal cambiamento della residenza abituale. Di fatto, l’articolo 10, par.1, prevede esplicitamente che è il «momento della morte» a costituire la data pertinente sia per determinare lo Stato membro in cui era situata la residenza abituale dell’interessato sia per stabilire la cittadinanza di quest’ultimo.
In secondo luogo, e sul piano sistematico, gli artt. 4 e 10 del Regolamento richiamato, unitamente ai considerando 23 e 30, ai fini dell’individuazione della competenza, sia generale che sussidiaria, considerano determinante il momento della morte, col principale vantaggio di prevedere competenze uniformi applicabili, allo stesso tempo, in tutti gli Stati membri nelle loro relazioni con gli Stati terzi. È noto, infatti, che l’esistenza di beni ereditari sul territorio dello Stato del giudice adito è il denominatore comune di tutte le competenze dell’art. 10. Le altre condizioni previste dall’art. 10, par. 1, si aggiungono alla presenza dei beni con il solo effetto di modulare l’estensione della competenza.
Infine, la Corte osserva come sia palese che il sistema del Regolamento si basa su alcune idee-forze quali l’unità della successione, il coordinamento tra i sistemi giuridici nazionali, la scelta della legge applicabile e il favor per le disposizioni a causa di morte, che cristallizzano lo scopo della certezza del diritto e della prevedibilità delle soluzioni. Ne deriva che la realizzazione di tali obiettivi sarebbe certamente compromessa se la competenza giurisdizionale potesse dipendere da circostanze post mortem.
Da qui la conclusione che, in tutti i casi previsti dall’art. 10, la competenza è attribuita ai giudici dello Stato membro del luogo in cui è situata una parte dei beni ereditari al momento della morte e non al momento in cui viene proposta domanda giudiziaria.
La decisione della Corte di giustizia UE, pertanto, è di indubbio interesse sotto due aspetti. Il primo, perché il giudice ha avuto una nuova occasione per ribadire come le norme poste nel Capo II del Regolamento costituiscono un sistema autonomo e autosufficiente, tale da definire quella «unité de compétence juridictionelle» che era stata individuata come la soluzione tanto agognata in materia di successioni al fine di rispondere alle esigenze di certezza del diritto e di facilitare l’organizzazione anticipata della successione.
Il secondo, in quanto è stato posto in rilievo l’importanza di indagare l’elemento temporale di cui ai considerando 23 e 30, soprattutto nelle ipotesi in cui il de cuius non avesse l’ultima residenza abituale in uno degli Stati membri, integrandosi così perfettamente con i criteri ulteriori di competenza c.d. sussidiaria. Profilo quest’ultimo che assume particolare importanza al fine di prevedere competenze uniformi applicabili, allo stesso titolo, in tutti gli Stati membri nelle loro relazioni con gli Stati terzi. Come indica il considerando 30, infatti, lo scopo dell’art. 10 è di «far sì che gli organi giurisdizionali di tutti gli Stati membri possano, in base agli stessi motivi, esercitare la competenza in ordine alla successione di persone non abitualmente residenti in uno Stato membro al momento della morte».
La sentenza è disponibile in italiano: Corte di giustizia UE, sentenza 7 novembre 2024 (causa C‑291/23, LS c. PL)
Tutela dei legittimari e ordine pubblico in Germania.
Tutela dei legittimari e ordine pubblico in Germania
13 gennaio 2025 | di Matteo Mangone
La Bundesgerichtshof con la sentenza del 29 giugno 2022 ha affermato il seguente principio di diritto: la tutela dei legittimari attiene all’ordine pubblico tedesco e, conseguentemente, in applicazione dell’art. 35 Reg. UE 2012 n.650, è possibile disapplicare la lex successionis individuata in base all’art. 22 del medesimo Regolamento, ogniqualvolta la sua applicazione non garantisca, in concreto, una tutela dei legittimari almeno pari a quella garantita dal diritto ereditario tedesco.
Nel caso di specie il testatore, originario del Regno Unito, ma con residenza abituale in Germania, con testamento del 13 marzo 2015, designava la legge inglese quale legge applicabile alla sua successione e, così come consentito dalla stessa, disponeva del suo intero patrimonio in favore di un terzo, pretermettendo il figlio adottivo.
Quest’ultimo adiva il Tribunale regionale di Colonia al fine di ottenere notizie sull’esistenza e sulla consistenza dell’eredità paterna, facendo valere i diritti al medesimo spettanti ai sensi dei paragrafi 2303, 2314, 1754 e 1755 BGB.
Il Tribunale adito respingeva il ricorso ma, su appello del ricorrente, il Tribunale regionale superiore di Colonia, con la sentenza del 22 aprile 2021, in riforma della sentenza impugnata, ordinava all’erede istituito di redigere un inventario dei beni ereditari.
L’erede testamentario proponeva quindi ricorso alla Corte di giustizia federale, insistendo per il rigetto integrale della domanda.
La Suprema Corte, affermata preliminarmente, in base al combinato disposto degli articoli 22 e 83 Reg. UE 650/2012, la validità della professio iuris contenuta nel suddetto testamento ancorché anteriore al 17 agosto 2015, data di entrata in vigore del Regolamento, verificava la compatibilità del diritto successorio inglese con l’ordine pubblico tedesco.
Da un lato, infatti, l’Inheritance Act del 1975 non riconosce una quota di riserva a favore dei discendenti in quanto tali ed indipendentemente dalle loro condizioni economiche, ma si limita a prevedere che il giudice, a sua discrezione, possa attribuire ai discendenti che si trovino in stato di bisogno un contributo economico contro la volontà del testatore, purché quest’ultimo, al momento della morte, fosse residente in Inghilterra o Galles.
Dall’altro lato, invece, il par. 2303 BGB garantisce al discendente una quota di riserva pari a metà del valore della quota al medesimo spettante a titolo di successione ab intestato, a prescindere da ogni valutazione circa la condizione economica del legittimario; mentre il par. 2314 BGB riconosce al legittimario pretermesso il diritto di ottenere dall’erede testamentario informazioni sul contenuto dell’eredità e di domandare la redazione di un inventario, i cui costi gravano sull’eredità.
La Suprema Corte ritiene che le previsioni dell’Inheritance Act siano in contrasto con il diritto ereditario tedesco, che gode di protezione costituzionale in forza degli articoli 6 e 14 Grudgesetz.
Da tali disposizioni si ricava che la partecipazione dei figli all’eredità dei genitori è conseguenza necessaria del legame parentale che li unisce ed è espressione del principio di solidarietà familiare, sicché ai discendenti deve sempre essere garantita una quota del patrimonio del defunto, a prescindere dalle condizioni economiche in cui questi versino.
La Bundesgerichtshof, inoltre, richiama le argomentazioni della sentenza della Corte costituzionale federale del 19 aprile 2005, la quale ha qualificato il diritto dei legittimari alla propria quota di riserva in termini di diritto fondamentale indisponibile volto a consentire la prosecuzione del legame ideale ed economico che intercorre tra il patrimonio della famiglia e i suoi membri.
La partecipazione del discendente all’eredità dell’ascendente viene, quindi, considerata espressione di quell’insieme di diritti e doveri di reciproca assistenza morale e materiale che animano la comunità familiare e che, in base al combinato disposto degli articoli 6 e 14 GG, costituiscono un limite costituzionalmente rilevante alla libertà testamentaria.
Chiarito che la successione necessaria gode di protezione costituzionale, la Corte si domanda se la lesione dei diritti che l’ordinamento tedesco riconosce ai legittimari comporti una violazione dell’ordine pubblico tedesco e, a tal fine, evidenzia l’esistenza di tre distinte tesi.
Un primo orientamento afferma che, anche ove la lex successionis non contempli quote di riserva, la disciplina tedesca non può trovare applicazione in quanto la tutela dei legittimari non rientra nella nozione tedesca di ordine pubblico e, di conseguenza, non è possibile disapplicare la lex causae in forza dell’art. 35 Reg. UE 650/2012.
Un indirizzo intermedio sostiene che, nonostante la tutela dei legittimari sia astrattamente riconducibile a quell’insieme di principi fondamentali che costituiscono il deutschen ordre public, non si ponga in concreto un problema di ordine pubblico quando, come nel caso di specie, ad essere privi di tutela siano soltanto legittimari economicamente autosufficienti.
L’opinione prevalente, seguita dalla decisione in commento, afferma, invece, che l’ordine pubblico tedesco sia violato ogniqualvolta la legge applicabile alla successione non offra ai legittimari una tutela almeno pari a quella offerta dall’ordinamento tedesco e, conseguentemente, conduca ad un risultato, da valutarsi caso per caso, in contrasto con gli articoli 6 e 14 GG.
Sulla base di tali argomentazioni la Suprema Corte giunge ad affermare che, nel caso di specie, il diritto successorio inglese contrasti con l’ordine pubblico tedesco, in quanto la previsione della possibilità di richiedere un contributo economico ove il legittimario versi in stato di bisogno, soluzione peraltro non percorribile nella vicenda in esame perché il de cuius aveva residenza e domicilio in Germania, viene considerata incompatibile con la quota di riserva che l’ordinamento tedesco riconosce ai discendenti.
La Corte di giustizia federale applica, quindi, l’art. 35 EuErbVO (Reg. UE 650/2012) che prevede che «l’applicazione di una disposizione della legge di uno Stato designata dal presente regolamento può essere esclusa solo qualora tale applicazione risulti manifestamente incompatibile con l’ordine pubblico del foro dell’autorità giurisdizionale o di altra autorità competente che si occupa della successione».
La violazione dell'ordine pubblico ha come conseguenza la disapplicazione della norma straniera. Tuttavia, per garantire che vi sia la minore interferenza possibile fra lex causae e lex fori, la lacuna, ove possibile, deve essere colmata con l'ausilio della lex causae medesima e, solo ove ciò non risulti possibile, sarà necessario applicare, in sostituzione, la lex fori.
Nel caso di specie, poiché il diritto inglese non garantisce al legittimario una quota ereditaria che soddisfi i requisiti di cui agli articoli 6 e 14 GG, la Bundesgerichtshof ritiene necessario applicare il diritto successorio tedesco.
La Suprema Corte, da ultimo, argomenta la conclusione raggiunta affermando che è proprio dal Reg. UE 650/2012 che si ricava che le disposizioni in materia di successione necessaria attengano all’ordine pubblico. Infatti, secondo i giudici tedeschi, ammessa la possibilità di designare, ex art. 22, la legge dello Stato di cui si è cittadini quale legge regolatrice della successione, una delle funzioni del summenzionato art. 35 sarebbe proprio quella di tutelare i legittimari eventualmente pregiudicati dalla legge designata, evitando che la professio iuris sia finalizzata a frustrare le aspettative di coloro che hanno diritto ad una quota di riserva.
La sentenza è disponibile in lingua tedesca: Bundesgerichtshof | 29 giugno 2022
Le novità del decreto legge 11 ottobre 2024, n. 145, convertito con legge 9 dicembre 2024, n. 187 in materia di ricongiungimento familiare.
In data 9 dicembre 2024 è stata adottata la legge n. 187/2024, di conversione del D.L. 11 ottobre 2024, n. 145. Il testo era stato approvato, su questione di fiducia posta dal governo, il 4 dicembre in Senato, con 99 favorevoli, 65 contrari e 1 astenuto. La riforma – la sesta in materia di immigrazione in poco meno di due anni – è intervenuta su settori diversi tra loro: dalle regole in materia di ingressi per lavoro, ad aspetti relativi alla protezione internazionale e alla disciplina dei Paesi di origine sicuri, dalle misure di tutela alle vittime di sfruttamento lavorativo, alla competenza in materia di convalida sulle misure privative della libertà personale dei richiedenti asilo.
In questo quadro di interventi disorganici, la legge di conversione ha inaspettatamente inserito anche una modifica alla disciplina del ricongiungimento familiare, intervenendo per la prima volta – dalla adozione del Testo Unico in materia di immigrazione – sull’aspetto della durata del permesso di soggiorno dei soggetti che richiedono il ricongiungimento.
Come noto, la direttiva 2003/86/CE (su norme minime comuni in materia di ricongiungimento familiare) ha lasciato ampia libertà agli Stati circa i limiti e i requisiti previsti per poter esercitare il diritto all’unità familiare. Quanto alla durata del soggiorno nello Stato membro tale da poter giustificare l’attivazione di una procedura di ricongiungimenti, la direttiva prevede che “il soggiornante è titolare di un permesso di soggiorno rilasciato da tale Stato membro per un periodo di validità pari o superiore a un anno, e ha una fondata prospettiva di ottenere il diritto di soggiornare in modo stabile” (art. 3).
La durata del permesso di soggiorno dei cittadini di Stati terzi che chiedono il ricongiungimento non è uniforme in tutti gli Stati dell’Unione, ed alcuni Stati richiedono che debba essere trascorso un determinato periodo di tempo dall’acquisizione del permesso di soggiorno prima di poter presentare istanza di ricongiungimento familiare. In Italia, invece, le previsioni sulla stabilità del soggiorno regolare sono rimaste invariate sin dall’adozione del Testo Unico in materia di immigrazione negli anni Novanta.
Infatti, il legislatore italiano aveva recepito la normativa UE imponendo che il permesso di soggiorno del familiare avesse durata “non inferiore ad un anno” (art. 28 D. lgs. 286/98 nella formulazione previgente), e prescrivendo che la persona fosse in possesso di un permesso “per motivi di lavoro subordinato o autonomo, ovvero per asilo, per studio, per motivi religiosi o per motivi familiari”.
La novella del 2024 modifica tale disposizione, prevedendo che gli stranieri che intendono richiedere il ricongiungimento “devono avere maturato un periodo ininterrotto di soggiorno legale di almeno due anni nel territorio nazionale”. Tale disposizione non si applica, per espressa previsione della stessa legge, ai titolari di permesso di soggiorno “conseguente al riconoscimento della protezione internazionale”, dovendosi con questa formula intendere sia i titolari di un permesso per asilo che i beneficiari di protezione sussidiaria.
Permangono incertezze, invece, sulla possibilità di richiedere il ricongiungimento da parte del titolare della protezione speciale che, pur facendo parte dell’alveo delle protezioni discendenti dal diritto di asilo costituzionale (art. 10, co 3 Cost.), non è qualificabile come protezione internazionale, ai sensi del diritto dell’Unione in materia (art. 3 dir. 2011/95/UE). In proposito, il documento di analisi della riforma preparato dal Servizio Studi di Camera e Senato ha escluso la possibilità di includere i titolari di permessi per casi speciali o protezione speciale entro i destinatari della previsione di favore (vale a dire l’esclusione dall’onere di dimostrare un soggiorno continuativo di almeno due anni).
Ulteriori incertezze possono discendere della interpretazione della previsione circa il “periodo ininterrotto di soggiorno legale”, poiché la norma non ha chiarito con quali modalità si dovrà dimostrare la continuità del soggiorno e, in particolare, se sarà sufficiente esibire il possesso di un titolo di soggiorno di almeno due anni, rilasciato due anni prima della presentazione dell’istanza, o di più titoli di soggiorno che attestino la permanenza regolare per almeno due anni, o se invece verrà richiesta documentazione anagrafica ai fini della verifica della continuità del soggiorno.
È importante precisare che la modifica normativa si applica soltanto alle richieste di ricongiungimento formulate per il coniuge o gli ascendenti: restano invece esclusi dall’ambito di applicazione del requisito del periodo biennale di soggiorno i figli minori, per i quali potrà dunque essere richiesto il ricongiungimento anche in mancanza della permanenza consecutiva del genitore.
Inoltre, l’intervento legislativo modifica anche l’art. 29, co 3 del D. Lgs. 286/98, che disciplina i requisiti per poter chiedere il ricongiungimento: oltre al soggiorno regolare, si prescrive anche il possesso di un reddito sufficiente e di un alloggio adeguato, vale a dire “conforme ai requisiti igienico-sanitari”, e rispetto al quale sia stata accertata, “dai competenti uffici comunali”, l’idoneità abitativa. L’art. 6 del DPR 309/90 precisa che, a tal fine, la persona interessata deve produrre l’attestazione dell’ufficio comunale circa la sussistenza dei requisiti ovvero il certificato di idoneità igienico-sanitaria rilasciato dall’Azienda unità sanitaria locale competente per territorio.
La legge n. 187/2024 interviene su quest’ultimo profilo, prevedendo che la valutazione della idoneità dell’alloggio è “subordinata alla verifica del numero degli occupanti nonché dei requisiti minimi di superficie ed igienico-sanitari dei locali d’abitazione stabiliti dal decreto del Ministro della sanità 5 luglio 1975”. In effetti, già la circolare del Ministero dell’interno del 18 novembre 2009, n. 7170, aveva indicato che “i Comuni, nel rispetto della loro autonomia, nel rilasciare la certificazione relativa all’idoneità abitativa, possono fare riferimento alla normativa contenuta nel decreto 5 luglio del 1975 del Ministero della sanità”.
Resta dubbio se la novella intenda meramente trasporre all’interno del testo di legge le indicazioni della circolare, o se invece introduca una ulteriore imposizione a carico dell’amministrazione comunale, che dovrà verificare (tramite accesso del personale dipendente?) il numero effettivo delle persone occupanti l’abitazione. Perfino il documento di analisi del Servizio Studi di Camera e Senato si è mostrato incerto sui profili applicativi della norma, limitandosi ad indicare che “alla luce della formulazione, sembrerebbe che tale verifica [circa il numero di occupanti] spetti comunque agli uffici comunali”.
Le modifiche apportate dal legislatore con il D.L. 145/24, convertito in L. 188/24, non riformano sostanzialmente la disciplina del ricongiungimento familiare. Tuttavia, entrambi gli interventi tendono a dilatare ulteriormente i tempi necessari per esercitare il diritto all'unità familiare, intervenendo sulla fase ‘preparatoria’ della procedura, preliminare alla presentazione dell’istanza. Nel primo caso, ciò avviene richiedendo un periodo di soggiorno regolare più lungo rispetto alla precedente normativa. Nel secondo caso, l'aggravio degli oneri di controllo a carico degli uffici comunali rappresenterà un fattore dilatorio rispetto ai tempi di accertamento dell'idoneità, che in diverse città italiane già supera i 6 mesi.
L’individuazione della residenza abituale del de cuius al momento della morte nella sentenza della Cour de cassation n. 21-10.905/2023.
L’individuazione della residenza abituale del de cuius al momento della morte nella sentenza della Cour de cassation n. 21-10.905/2023.
5 novembre 2024 | di Maria Cristina Gruppuso
La Première Chambre civile della Cour de cassation, con sentenza del 12 luglio 2023, si è pronunciata in tema di residenza abituale con riferimento ad una controversia in materia di successioni mortis causa.
La persona della cui successione si tratta, tra il maggio 2014 e il gennaio 2015, sottoscriveva un contratto di assicurazione sulla vita a favore di beneficiari determinati, tra i quali non comparivano le figlie nate da una precedente relazione. Come emerge dal testo della sentenza, a seguito di una grave malattia, a partire dal 2014, il de cuius intraprendeva diversi viaggi in Portogallo, dove il 28 giugno 2016, insieme alla moglie, trasferiva il proprio domicile e dove, oltre ad aver instaurato nuovi rapporti di amicizia e acquistato un immobile, aveva deciso di iscriversi ad un corso di lingua per imparare il portoghese. Il 20 novembre 2016, l’ereditando decedeva in Portogallo a causa di un infarto.
Le figlie (rappresentate dalla madre) convenivano in giudizio la moglie del de cuius e i beneficiari del contratto di assicurazione, al fine di ottenere la divisione dei beni ereditari dinnanzi al giudice francese, sul presupposto che il de cuius, al momento della morte, avesse la residenza abituale in Francia.
Ai sensi dell’art. 4 del Regolamento UE n. 650/2012, rubricato «Competenza generale», infatti, «sono competenti a decidere sull’intera successione gli organi giurisdizionali dello Stato membro in cui il defunto aveva la residenza abituale al momento della morte».
I convenuti si costituivano in giudizio e sollevavano il difetto di giurisdizione del giudice francese, ritenendo, invece, che al momento della morte, il de cuius avesse la residenza abituale in Portogallo.
La Cour d’appel d’Aix-en-Provence, investita della causa, statuiva che avente giurisdizione sulla controversia concernente la successione del cittadino francese fossero i giudici francesi, in quanto, al momento della morte, il de cuius non aveva fissato «de manière stable et effective» la sua residenza abituale in Portogallo. Non solo, da quanto emerge nel testo, la Cour d’appel ravvisava nella fattispecie in esame una frode alla legge realizzata dal cittadino francese, poiché i primi soggiorni e il trasferimento del domicile del de cuius e della moglie in Portogallo, così come la scelta di liquidare il suo patrimonio immobiliare in Francia e di investire parte del ricavato nella polizza assicurativa (che tra i beneficiari, si ricorda, non annoverava la figlie legittimarie), costituivano atti realizzati in concomitanza con il sorgere della malattia e aventi uno specifico fine. Da tali elementi, infatti, la Cour d’appel ricavava che il de cuius aveva agito con il solo scopo di evitare l’applicazione delle disposizioni della legge francese in materia di diritti dei legittimari e di premi manifestamente eccessivi con riferimento al contratto di assicurazione vita, volendo, in sostanza, rendere applicabile alla successione la legge portoghese.
I convenuti propongono ricorso per cassazione, lamentando l’infondatezza dei presupposti su cui la Cour d’appel giunge ad affermare la frode alla legge e, quindi, a confermare la sussistenza della giurisdizione francese in violazione del considerando (26) (concernente la frode alla legge) e, soprattutto, dell’art. 4 del Regolamento UE n. 650/2012.
La Cour de cassation ritiene fondata la decisione della Cour d’appel e rigetta il ricorso. Nell’assai concisa motivazione, la cassazione muove dal testo del Regolamento UE n. 650/2012, richiamando il considerando (23).
Il Regolamento UE n. 650/2012, pur senza dettarne una definizione, al considerando (23), indica che il criterio di collegamento generale ai fini della determinazione della competenza e della legge applicabile è la residenza abituale del defunto al momento della morte, e fornisce alcuni criteri per determinarla. In particolare, l’autorità che si occupa della successione dovrebbe operare una valutazione globale delle circostanze di vita del defunto «negli anni precedenti la morte e al momento della morte» e una valutazione che tenga conto «di tutti gli elementi fattuali pertinenti». Con riferimento a detti elementi, il Regolamento, esemplificando, elenca: la durata del soggiorno, la regolarità del soggiorno, le condizioni del soggiorno e le ragioni del soggiorno.
Se si prosegue nella lettura del Regolamento, poi, il considerando (24), riferendosi a casi in cui può risultare complesso determinare la residenza abituale del defunto, ad esempio in ipotesi di trasferimenti per motivi di lavoro o in ipotesi in cui il defunto fosse «vissuto alternativamente in più Stati o si fosse trasferito da uno Stato all’altro senza essersi stabilito in modo permanente in alcuno di essi», consente di individuare la residenza abituale del de cuius sulla base del centro degli interessi della sua famiglia o del centro degli interessi della sua vita sociale, nonché impiegando il criterio della cittadinanza o della localizzazione dei suoi beni principali.
Ora, la Cour de cassation conferma le argomentazioni della Cour d’appel, ponendo in evidenza alcuni elementi. Per un verso, dal punto di vista della durata del soggiorno (dunque, sotto un profilo quantitativo), il lasso temporale in cui il de cuius aveva vissuto in Portogallo era stato inferiore a cinque mesi (poiché si era trasferito il 28 giugno ed era morto il 20 novembre); per altro verso, il de cuius aveva deciso di imparare la lingua portoghese «très tardivement»; per altro verso ancora, persisteva un collegamento con l’ordinamento francese in quanto, pur avendo acquistato con la moglie un immobile in Portogallo, il de cuius restava titolare di una casa in Francia, continuava ad essere iscritto alle liste elettorali francesi e sia lui che la moglie mantenevano la maggior parte dei rapporti di amicizia e familiari in Francia, dove risiedevano altresì i beneficiari del contratto di assicurazioni.
Si potrebbe dedurre, in sostanza, che la Cour de cassation, volgendo l’attenzione al testo regolamentare, ma pur sempre nel segno di un accertamento della residenza abituale da operarsi «caso per caso», abbia impiegato in concomitanza taluni dei criteri forniti nei considerando del Regolamento UE n. 650/2012. I giudici, all’esito di tale valutazione, infatti, parrebbero aver attribuito rilevanza all’elemento temporale di cui al considerando (23), ritenendo non sufficiente al fine di stabilire la residenza abituale una permanenza in un determinato Stato pari solo a cinque mesi e, sempre sulla base di quanto emerge, non tenendo in conto la regolarità del soggiorno (se è vero che il de cuius e la moglie, dal 2014 si recavano in Portogallo). Ancora, oltre al criterio della durata del soggiorno, sembrerebbero concorrere nella valutazione della Corte anche gli ulteriori criteri dettati al considerando (24) per i casi complessi, in particolare: il centro degli interessi della famiglia del de cuius e delle sua vita sociale (avendo tenuto conto delle relazioni familiari e amicali, nonché del Stato di residenza dei beneficiari del contratto di assicurazione); l’elemento della cittadinanza (che si potrebbe desumere dall’iscrizione alle liste elettorali francesi); l’elemento della localizzazione dei beni del de cuius (vista la titolarità di una casa situata in Francia).
La sentenza è disponibile in lingua francese: Cour de cassation n. 21-10.905/2023
La tutela effettiva alla convivenza di fatto nella sentenza n. 148/2024 della Corte Costituzionale: possibili ripercussioni sul diritto dell’immigrazione?
Settembre 2024 | ESODI
La Corte Costituzionale, con la sentenza n. 148 del 2024 ha stabilito l’illegittimità costituzionale dell’art. 230-bis, III comma, c.c., nella parte in cui non contempla il “convivente di fatto” quale familiare dell’“impresa familiare”, e ha dichiarato la conseguente incostituzionalità dell’art. 230-ter c.c.
La questione di legittimità costituzionale riguardava la mancata equiparazione del convivente di fatto al coniuge ai fini dell’applicazione della normativa sull’impresa familiare. I fatti di causa riguardavano la convivente more uxorio del titolare di una azienda agricola familiare, la quale aveva prestato attività lavorativa continuativa presso l’azienda sino al decesso del convivente, e che aveva chiesto la liquidazione della quota dell’azienda ad essa spettante in qualità di “familiare” partecipante all’impresa. La domanda della convivente di fatto era stata rigettata nell’ambito dei giudizi di merito, sul presupposto del fatto che il convivente di fatto non potrebbe essere considerato “familiare” ai sensi dell’art. 230-bis, terzo comma, cod. civ., e che la convivenza si era svolta in un periodo antecedente alle modifiche apportate dalla legge 20 maggio 2016, n. 76 all’art. 230-ter cod. civ., con le quali il legislatore aveva inteso estendere parzialmente ai conviventi di fatto la disciplina dell’impresa familiare.
La Corte Costituzionale, sollecitata a valutare la legittimità costituzionale delle norme in commento dalle Sezioni Unite della Cassazione (ordinanza di interlocutoria no. 1900 del 18/01/2024), ha ritenuto che l’esclusione del convivente di fatto dal novero dei soggetti cui si può applicare l’art. 230-bis cod. civ. determinasse una violazione del diritto fondamentale al lavoro (artt. 4 e 35 Cost.) e alla giusta retribuzione (art. 36, primo comma, Cost.), in un contesto di formazione sociale, quale è la famiglia di fatto (art. 2 Cost.). Anche l’art. 3 Cost. risulterebbe violato “non per la sua portata eguagliatrice, restando comunque diversificata la condizione del coniuge da quella del convivente”, ma per la contraddittorietà logica della esclusione del convivente dalla previsione di una norma posta a tutela del diritto al lavoro che va riconosciuto quale strumento di realizzazione della dignità di ogni persona, sia come singolo che quale componente della comunità, a partire da quella familiare.
Sebbene la pronuncia della Corte Costituzionale abbia riguardato il tema della partecipazione del convivente di fatto all’impresa familiare, e dunque una materia distinta da quella del diritto dell’immigrazione, la decisione contiene numerosi spunti di interesse relativi alla ricostruzione operata dai giudici costituzionali dell’istituto della convivenza more uxorio, inteso quale “formazione sociale” ove si svolge la personalità dell’individuo, ai sensi dell’art. 2 Cost., e alla inclusione del convivente nel nucleo dei “familiari” (ai sensi dell’art. 230 bis cod. civ.). La decisione è, del resto, intervenuta poco dopo la pronuncia n. 10 del 2024, con la quale la Consulta ha riconosciuto che la convivenza rientrasse tra le relazioni affettive della
persona che l’ordinamento giuridico tutela “nelle formazioni sociali in cui esse si esprimono” e ha dichiarato l’illegittimità costituzionale della norma dell’ordinamento penitenziario nella parte in cui non prevede che la persona detenuta possa essere ammessa a svolgere i colloqui con il coniuge, la parte dell’unione civile o la persona con lei stabilmente convivente.
Inoltre, già nei primi anni Duemila la Corte Costituzionale riconosceva la sussistenza di “ipotesi particolari”, in relazione alle quali “si possono riscontrare tra convivenza more uxorio e rapporto coniugale caratteristiche tanto comuni da rendere necessaria una identità di disciplina” (sentenza n. 140 del 2009). Sebbene, infatti, la “trasformazione della coscienza e dei costumi sociali non autorizzi”, di per sé, la perdita dei contorni caratteristici delle due figure di famiglia di fatto e famiglia fondata sul matrimonio, al contempo, “la distinta considerazione costituzionale della convivenza e del rapporto coniugale non esclude la comparabilità delle discipline riguardanti aspetti particolari dell’una e dell’altro che possano presentare analogie ai fini del controllo di ragionevolezza a norma dell’art. 3 Cost.”.
Più in generale, la decisione si affianca al filone delle pronunce della Corte di Cassazione, volte a dare progressivo riconoscimento della rilevanza giuridica del rapporto di convivenza, intesa quale legame affettivo stabile e duraturo in virtù del quale siano spontaneamente e volontariamente assunti reciproci impegni di assistenza morale e materiale: negli ultimi anni sono intervenute decisioni sia in ambito civile (ad es. in tema di risarcimento del danno da perdita della vita del convivente, sull’accertamento della convivenza ai fini dell’indebito arricchimento, della legittimazione ad esperire l’azione di spoglio, o sulla detenzione qualificata dell’immobile adibito a casa familiare assegnato all’ex convivente genitore collocatario di figli minori) sia in ambito penale (in tema di inclusione, in via interpretativa, del convivente more uxorio tra i “prossimi congiunti” per cui è prevista l’applicazione della causa di non punibilità di cui all’art. 384 cod. pen.).
In sostanza, la Corte Costituzionale ha sancito, con la sentenza in commento, che vi è stata una significativa evoluzione della giurisprudenza costituzionale e di legittimità che, in convergenza con gli approdi della giurisprudenza sovranazionale in materia di diritto all’unità familiare, ha riconosciuto piena dignità alla famiglia composta da conviventi di fatto. Inoltre, ha affermato l’importante principio in base al quale, quando ci si muove nel campo dei diritti fondamentali (siano essi il diritto al lavoro, all’abitazione, alla protezione dei soggetti disabili, o all’affettività delle persone detenute) le differenze di disciplina con quanto previsto per la “famiglia fondata sul matrimonio” devono intendersi come recessive.
Di fronte a tali conclusioni, e al riconoscimento che la scelta di un differente modello familiare quale quello della convivenza (di fatto o registrata, ai sensi della legge 20 maggio 2016, n. 76) non possa restare priva di tutela, ci si chiede se sia ipotizzabile operare una estensione delle tutele a favore del familiare convivente anche nell’ambito del diritto dell’immigrazione. Attualmente, infatti, l’unica famiglia riconosciuta come tale dal legislatore nell’ambito del Testo Unico Immigrazione, e delle legge in materia di cittadinanza, è quella fondata sul matrimonio: ne deriva, ad esempio, che la cittadinanza italiana può essere richiesta unicamente dal coniuge di cittadino italiano; similmente, la tutela di fronte all’espulsione in ragione dell’irregolarità del soggiorno può essere invocata unicamente dal coniuge, convivente, di cittadino italiano; o, ancora, ai fini della computa dei redditi necessari per il rilascio del permesso di soggiorno rileva unicamente il reddito prodotto dal coniuge (italiano o straniero).
È noto che, nell’ambito del diritto dell’immigrazione, i diritti fondamentali dei migranti (compreso quello alla tutela dell’unità familiare) devono trovare un bilanciamento, “ragionevole e proporzionato” con l’interesse statale alla disciplina dei flussi migratori (ex multis, Corte Cost. sentenza n. 172 del 2012). Tuttavia, una simile esigenza non impedisce di prendere atto che l’evoluzione sociale rispetto alla rilevanza dei rapporti di convivenza riguarda anche le persone straniere, a maggior ragione quando legate da un rapporto affettivo con partner italiani. Le riflessioni contenute nella sentenza n. 148/2024 della Corte Costituzionale potrebbero rappresentare un punto di partenza per estendere la riflessione sulla rilevanza giuridica dei rapporti di convivenza – intesa come rapporto affettivo stabile e continuativo – delle famiglie miste e a composte da cittadini stranieri, alla luce della portata universalista dell’art. 2 Cost.
Corte Costituzionale, sentenza n. 148/2024, decisione del 4.7.2024, pubblicata il 25.7.2024, red. Amoroso
Recenti pronunce in tema di diritto al ricongiungimento familiare e di ritardi dell’Amministrazione nella fase di rilascio del visto
Recenti pronunce in tema di diritto al ricongiungimento familiare e di ritardi dell’Amministrazione nella fase di rilascio del visto
Luglio 2024 | ESODI
Segnaliamo alcune pronunce recenti, adottate da Tribunali di merito, in materia di ricongiungimento familiare e di diritto alla formalizzazione, da parte dei familiari che intendono ricongiungersi, della richiesta di rilascio di visto per motivi familiari.
Come noto, il ricongiungimento familiare si qualifica come un procedimento complesso e a formazione progressiva, poiché prevede il susseguirsi di due passaggi, l’uno funzionale all’altro: in una prima fase, il cittadino di Stato terzo presente in Italia, e titolare di un permesso di soggiorno della durata di almeno un anno, nonché di tutti i requisiti necessari per il ricongiungimento, presenta una richiesta di nulla osta alla Prefettura competente; durante la seconda fase, che si attiva al momento del rilascio del nulla osta, il familiare da ricongiungere deve recarsi presso la rappresentanza consolare italiana nel Paese di origine per richiedere il rilascio del visto.
Questa seconda fase rappresenta, spesso, quella di maggiore criticità nelle procedure di ricongiungimento, poiché non di rado le tempistiche delle Ambasciate per la fissazione degli appuntamenti sono particolarmente dilazionate nel tempo: può perciò verificarsi il superamento dei 6 mesi di validità del nulla osta, prima che il familiare possa ottenere un appuntamento per il rilascio del visto, nonostante i ripetuti tentativi di contattare l’autorità italiana. Di conseguenza, si è sviluppato un ampio contenzioso avanti l’autorità giudiziaria italiana volta alla risoluzione delle criticità legate alla presentazione della domanda di visto: di fatto, gli ostacoli amministrativi e burocratici possono in alcuni casi compromettere l’effettivo godimento del diritto al ricongiungimento familiare.
Le due pronunce illustrate di seguito, adottate dal Tribunale ordinario di Roma, intervengono entrambe sulla legittimità dell’operato dell’Amministrazione connotato da ritardi nella fissazione dell’appuntamento per il rilascio del visto, seppur nell’ambito di due procedimenti differenti.
Una prima pronuncia, adottata il 23.6.2024 (R.G. 23918/2024), ha carattere cautelare ad è stata emessa nell’ambito di un procedimento connotato da caratteri di urgenza ex art. 700 c.p.c. La causa riguardava la moglie e i tre figli minori di un cittadino pakistano vittima di gravi discriminazioni nel Paese e riconosciuto quale rifugiato in Italia. I ricorrenti si attivavano immediatamente dopo il rilascio del nulla osta per chiedere l’appuntamento per il rilascio del visto, che l’Ambasciata si rifiutava di concedere ritenendo necessaria la previa presentazione dei documenti di parte debitamente legalizzati. In proposito, il Tribunale fornisce un importante chiarimento circa la non consequenzialità tra la procedura di legalizzazione e quella di richiesta di visto, precisando che la circostanza che, per l’eventuale accoglimento della richiesta di visto, sarebbe stata necessaria la definizione della procedura di legalizzazione “è priva di pregio alla luce della normativa di settore che prevede il necessario impulso di parte anche per la procedura di visto e l’assenza di alcuna pregiudizialità di tale procedura rispetto a quella di legalizzazione”. Infatti, la prima procedura non è una parte necessaria del procedimento bifasico volto al riconoscimento del diritto al ricongiungimento familiare, “ma costituisce una mera eventualità di tale procedimento amministrativo (cfr., art. 6, comma 2, DPR n. 394/99), la quale ben può precedere perfino la richiesta di nulla osta e dunque l’inizio dell’intero procedimento”. Il Tribunale precisa che, conseguentemente, la richiesta di legalizzazione degli atti non sospende il termine di 6 mesi entro i quali deve necessariamente essere richiesto il visto procedura di ricongiungimento. Riconosciuto che i ricorrenti avevano tempestivamente richiesto la fissazione dell’appuntamento per il rilascio del visto – congiuntamente a quello di legalizzazione dei documenti – il Tribunale ha ordinato all’Amministrazione la fissazione dell’incombente.
Merita, inoltre, richiamare l’attenzione sulla valutazione operata dall’autorità giudiziaria in relazione alla sussistenza del periculum in mora, necessario per potersi esprimere nell’ambito del procedimento cautelare. A tal fine il Tribunale ha valorizzato l’interesse dei minori ad ottenere una decisione certa in merito all’esercizio del diritto all’unità familiare: “la lesione del benessere dei minori causata dall’incertezza sui tempi (oltre che sull’esito) del procedimento, infatti, si aggraverebbe inevitabilmente nelle more di un procedimento ordinario, data la perdurante situazione di lontananza dal padre, nel momento più delicato di formazione della personalità e data la necessità di garantire ad essi al più presto il raggiungimento di una stabilità, anche al fine di proseguire il proprio percorso di crescita, scolastica e di relazioni, nel Paese dove il ricorrente ha radicato la propria vita e intende rimanere, in caso di esito positivo della domanda”.
La seconda pronuncia che viene in rilievo, del 16.7.2024 (R.G. 20990/2024) è quella adottata nell’ambito di un giudizio di merito, proposto avverso il provvedimento di rigetto del visto per ricongiungimento familiare, motivato dall’asserito ritardo della domanda di rilascio dello stesso.
I fatti di causa sono i seguenti: una cittadina srilankese presentava istanza di ricongiungimento familiare con i genitori e, dopo aver ottenuto il nulla osta in data 7.3.2023, si attivava per ottenere un appuntamento nel loro interesse presso l’Ambasciata italiana a Colombo, per il tramite dell’agenzia Forsiter Global service. Stante l’impossibilità di ottenere un appuntamento tramite prenotazione sul sito dell’agenzia esterna (per l’assenza di slot disponibili), i richiedenti il visto contattavano l’Ambasciata il 4.9.2023, tramite gli indirizzi email ufficiali disponibili sul sito istituzionale. I funzionari replicavano che l’unica modalità per prendere appuntamento era tramite il sito di Forsiter Global service. I genitori della richiedente il ricongiungimento riuscivano a prenotare un appuntamento online, dopo diversi tentativi, soltanto nel marzo 2024 e l’Ambasciava adottata un decreto di rigetto dell’istanza per superamento del termine di 6 mesi dal rilascio del nulla osta.
Il Tribunale riconosceva tuttavia che i richiedenti il visto si erano prontamente attivati, subito dopo il rilascio del nulla osta, al fine di ottenere l’appuntamento presso l’agenzia esterna. In ogni caso, valutava che la richiesta di appuntamento trasmessa via email ai canali ufficiali dell’Ambasciata fosse sufficiente ad attivare l’iter per l’ottenimento del visto entro i termini di legge. L’autorità giudiziaria, inoltre, afferma che “alcun comportamento negligente è imputabile a parte ricorrente e che l’Ambasciata, scegliendo di delegare parte delle attività inerenti all’iter di rilascio del visto ad un’agenzia esterna rimane in ogni caso responsabile degli eventuali ritardi dalla stessa accumulati”.
In sostanza, nelle due pronunce esaminate, viene enunciato e rafforzato l’importante principio di diritto in base al quale i ritardi dell’autorità competente al rilascio del visto, anche qualora questa si avvalga di agenzie esterne per lo svolgimento delle attività delegatele, non possono in nessun caso ricadere sulla ricorrente e compromettere il suo diritto all’unità familiare.
Tribunale ordinario di Roma, sez. diritti della persona e immigrazione civile, 23 giugno 2024, n. R.G. 23918/2024
Tribunale ordinario di Roma, sez. diritti della persona e immigrazione civile, 16 luglio 2024, n. R.G. 20990/2024
Sulla recente pronuncia della Corte europea dei diritti dell’uomo in tema di successioni internazionali e tutela dei legittimari
Sulla recente pronuncia della Corte europea dei diritti dell’uomo in tema di successioni internazionali e tutela dei legittimari
10 maggio 2024 | di Maria Cristina Gruppuso
La Corte Europea dei diritti dell’uomo con sentenza del 15 febbraio 2024 si è pronunciata sull’affaire Jarre c. France, controversia in tema di successioni internazionali.
Maurice Jarre, compositore di nazionalità francese, padre di tre figli residenti in Francia (due nati da diversi matrimoni e uno adottato in seguito al terzo matrimonio), nel 1984, si trasferisce negli Stati Uniti, precisamente in California, dove contrae il quarto matrimonio.
Negli anni seguenti, Jarre pianifica la sua successione, compiendo diverse operazioni: istituisce un trust di cui la moglie, per mezzo di una modifica successiva, diviene unica beneficiaria; costituisce (divenendo titolare del 90% delle quote) una société civile immobilière nella quale conferisce un bene immobile di sua proprietà situato a Parigi; redige due testamenti attribuendo i suoi beni alla moglie.
Nel 2009 Jarre muore in California. Secondo le norme di diritto internazionale privato francesi allora vigenti (si intende, prima dell’entrata in vigore del Regolamento UE n. 650/2012), le successioni internazionali seguivano il sistema scissionistico: la successione nei beni mobili era disciplinata dalla legge dello Stato dell’ultimo domicilio del de cuius, la successione nei beni immobili, invece, veniva regolata dalla legge dello Stato in cui gli immobili erano situati. La successione, pertanto, viene regolata dalla legge californiana, la quale non prevede una disciplina a tutela dei legittimari.
Nel 2010, i figli di Maurice Jarre agiscono dinnanzi al giudice francese per vedersi riconoscere il diritto di prelievo compensativo corrispondente alla loro quota di riserva sui beni situati in Francia, diritto che l’art. 2 della Legge del 14 luglio 1819 attribuiva ai soli eredi cittadini francesi.
In particolare, i figli ritengono che l’operazione del padre consistente nel conferimento in società del bene immobile situato a Parigi debba considerarsi nulla in quanto volta, con intento fraudolento, a eludere l’applicazione della legge francese. Non solo, secondo i ricorrenti, l’applicazione della legge californiana dovrebbe essere rifiutata poiché, non riconoscendo essa una quota riservata ai legittimari, è contraria all’ordine pubblico internazionale.
Nel 2011, nel corso del processo, interviene una pronuncia del Conseil constitutionnel che dichiara incostituzionale il citato art. 2 in quanto recante una disparità di trattamento tra gli eredi francesi e gli eredi stranieri. La disposizione viene abrogata con effetto retroattivo, avendo deciso il Conseil constitutionnel francese di non avvalersi del potere (pur attribuitogli dall’art 62, comma 2, della costituzione francese) di modulare gli effetti della pronuncia al fine di differire a data ulteriore il prodursi dell’effetto abrogativo.
Nei giudizi di merito e in Cour de cassation, le doglianze dei figli di Maurice Jarre vengono respinte. Esauriti i rimedi giudiziari interni, i figli si rivolgono alla Corte europea dei diritti dell’uomo lamentando la violazione dell’art. 1 del Protocollo n°1 alla CEDU sulla protezione della proprietà e la violazione dell’art. 6 § 1 della CEDU concernente il diritto a un equo processo.
Per ciò che concerne l’art. 1 del Protocollo n°1, i ricorrenti ritengono di essere titolari, sin dal momento dell’apertura della successione, di diritti sulla successione del padre, potendo vantare una posizione di titolarità (garantita dall’art. 1 Protocollo n°1) rispetto ai beni facenti parte della massa ereditaria e, in ogni caso, di essere titolari di un’aspettativa legittima (espérance légitime) di ottenere tali beni, anche in virtù della vigenza, al momento dell’apertura successione e alla data di introduzione del giudizio interno, dell’art. 2 della Legge del 14 luglio 1819 relativo al diritto di prelievo compensativo.
Secondo i ricorrenti vi sarebbe, poi, violazione dell’art. 6 § 1 della CEDU, poiché non è stato riconosciuto loro il diritto di prelievo compensativo vigente alla data in cui hanno introdotto il giudizio dinnanzi al giudice francese e in quanto l’abrogazione di tale diritto, avvenuta retroattivamente e in corso di causa, non avrebbe dovuto mettere in discussione la sua fondatezza (anche in considerazione del fatto che il diritto di prelievo è stato reintrodotto nel 2021, seppur depurato dalla previgente forma di discriminazione).
Con riferimento al primo motivo di ricorso, la Corte dichiara che la circostanza per cui al momento dell’apertura della successione e della proposizione dell’azione in giudizio vi erano le condizioni per ottenere il diritto di prelievo compensativo, attribuiva ai figli di Jarre, non un diritto attuale, ma un’aspettativa legittima di ottenere diritti sulla successione del padre. In tale contesto, l’intervenuta abrogazione dell’art. 2 ha costituito sì un’ingerenza nella situazione giuridica che i figli di Jarre potevano vantare, ma un’ingerenza avvenuta nel rispetto dei principi di legalità, proporzionalità e nell’interesse generale.
Con riferimento al secondo motivo di ricorso, la Corte rileva che alla luce del quadro legislativo in vigore al momento dell’introduzione del giudizio, vero è che ricorrenti potevano ottenere il riconoscimento del diritto ad una parte dei beni della successione del padre, e tuttavia la loro situazione giuridica non era ancora stata definita e i diritti per i quali agivano in giudizio non erano ancora stati definitivamente acquisiti. A ciò si aggiunga, prosegue la Corte, che l’abrogazione dell’art. 2 della Legge del 14 luglio 1819 è intervenuta a seguito di un normale meccanismo di controllo all’interno di uno Stato democratico.
Per tali ragioni, entrambi i motivi di ricorso vengono respinti.
Merita segnalare che, nel porre al vaglio le decisioni assunte dai giudici interni, la Corte giunge a pronunciarsi sul rapporto tra tutela dei legittimari e ordine pubblico, confermando quanto già statuito dai giudici interni. Come si diceva, i figli di Maurice Jarre lamentano la contrarietà all’ordine pubblico internazionale della legge californiana che non prevede una tutela a favore dei legittimari.
La Corte afferma chiaramente che non esiste un diritto generale e incondizionato (droit général et inconditionnel) dei figli di ereditare una parte dei beni dei loro genitori. Inoltre, aggiunge la Corte, nel caso di specie, i giudici francesi, prima di escludere l’operatività dell’eccezione dell’ordine pubblico internazionale, hanno verificato che i figli non si trovassero in uno stato di difficoltà economica o di bisogno e che non vi fosse nessun intento fraudolento nelle operazioni effettuate da Jarre volte a beneficiare la moglie, giungendo così ad una soluzione rispettosa della libertà testamentaria del de cuius.
La sentenza è disponibile in lingua francese: Affaire Jarre c. France